Scrittrice, nasce a Roma il 10 aprile 1892; dai 5 ai 18 anni vive a Treia presso due anziani zii, un colto ed eclettico prete e la sorella nubile.
Studia presso l’educandato, il prestigioso collegio Salesiano della Visitazione, per poi laurearsi a Roma in Magistero. Insegna Lettere nelle Marche (San Ginesio e Macerata), in Toscana (San Sepolcro) e, infine, a Roma dove si stabilisce definitivamente. Per vivere pubblica e vince premi come giornalista, ma critica e pubblico la “scoprono” come scrittrice soltanto nel 1980, quando all’età di ottantasette anni, viene pubblicato il suo capolavoro, il romanzo autobiografico “Giù la piazza non c’è nessuno”, nella versione ridotta edita da Natalia Ginzburg. Solo nel 1997, dopo qualche anno dalla morte della scrittrice, l’opera viene pubblicata nella sua versione integrale dalla Mondadori.
Per conoscere questa grande scrittrice del Novecento italiano, oltre al romanzo di ambientazione treiese, si può leggere il racconto “Scottature” e la raccolta “Sogni” (ed. Quodlibet) nonché il romanzo “Campane a San Giocondo” (ed. Avagliano).
Dolores Prato muore il 13 luglio 1983 ad Anzio e viene sepolta nel cimitero di Prima Porta a Roma. Dal 1987, per volontà del Comune di Treia, le sue spoglie riposano nel cimitero cittadino. Buona parte dei suoi scritti sono conservati a Firenze presso l’archivio contemporaneo G. P. Vieusseux.
La Prato è stata inserita nel 2004 nel terzo volume di Italiane, dizionario biografico promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento Pari Opportunità, con una scheda a cura della Livi.
Tutti i diritti letterari ed editoriali appartengono al Comune di Treia.
“Io la chiamerò paese, ma è città. La restituì alla dignità civica un papa che ne riscosse un monumento librato nell’aria; in bronzo il suo ritratto a mezzo busto; il resto pietra, slancio luce; sta alto nello spazio come un gigantesco ostensorio e per fondo non potrà avere che il cielo.
Nello stemma la città era rappresentata da tre monticelli appoggiati fianco a fianco come per esprimere unità nella trinità; due fiori spuntavano tra loro, gigli o rosolacci; li vidi in atteggiamenti diversi: pudichi, o sfacciati; le tre gobbe sostenitrici del paese non le distinsi mai.
Roma e Treja hanno in comune il mistero del nome. Roma nome maschera quello che nascondeva il suo vero; come non sapremo mai quale fu questo nome, così non sapremo mai quale nume stravolto, o mascherato, dette il nome a Treia... Da un irrecuperabile mistero nacque Treja le cui lettere furono sempre su per giù quelle della terra. Treia deriva da Traiano? No, da Trea, però lo mette in dubbio quella j lunga che e ‘è sempre stata e che è stata graficamente cancellata; ma provare a dire Tre-i-a con la i piccina, non è più lei... Treia ha frantumato la sua storia ed i frantumi mandano echi spezzati, echi lunghissimi non esistono. Frantumi di lapidi nel paese e nella campagna: un firmamento di frantumi lapidari dove si vaga come si vagherebbe fra la Via Lattea.
I frammenti più grossi li adoperò per materiale da costruzione; ci fece anche gli scalini per salire super la torre campanaria del Duomo”.
“Perché ero sola, perché non avevo quello che avevano gli altri bambini certi episodi diventavano cippi miliari di una strada deserta; si dilatavano proprio perché intorno avevano il deserto. Forse proprio per questa mia solitudine m’incantavo avanti a tutto, anche a un ombrello … La solitudine mi dava le meraviglie, le meraviglie cancellavano la solitudine … Mai m’era capitato che qualcuno mi mettesse a cavalcioni sulle sue ginocchia e ridesse e scherzasse con me. Non sapevo neppure che agli altri ragazzini potesse capitare di stare sulle ginocchia di qualcuno come su un cavallo a dondolo. “Staccia minaccia”... mi buttava giù, mi tirava su, mi ributtava giù, più mi buttava e più godevo. “Staccia minaccia, buttiamola giù la piazza”...; cominciava così, non so come continuasse, ma finiva con un “giù” lungo e profondo, atroce e dolcissimo che mi capovolgeva. Emozione e felicità. Il pavimento era la piazza, io il brivido della caduta. Non l’ho imparata la filastrocca; quando tentavo di ricostruirla, arrivata a “giù la piazza”, attimi d’inutile attesa, poi il pensiero come se parlasse, diceva “Giù la piazza non c’è nessuno”. Anche adesso se, nel tentativo di far risorgere il resto, cantileno “Staccia minaccia, buttiamola giù la piazza” e sforzo una resurrezione che non avviene, di per sè arriva: Giù la piazza non c’è nessuno”
Da “Giù la piazza non c’è nessuno” di Dolores Prato
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